L'abito nel tango
L’abito nel tango
Quando vestirsi diventa linguaggio
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Nel tango l’abito non è decorazione.
Non serve ad apparire, né a sedurre nel senso superficiale del termine.
Nel tango l’abito parla prima del corpo e continua a parlare mentre il corpo si muove.
> Prima ancora di camminare insieme, ci si incontra così come si è vestiti.
Non è moda.
È comunicazione non verbale.
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L’abito come estensione del corpo
Ogni abito modifica il modo in cui abitiamo il nostro corpo.
Nel tango questo effetto è amplificato, perché il ballo avviene in uno spazio minimo, condiviso, intimo.
Un tessuto rigido irrigidisce il respiro
Una scarpa instabile indebolisce l’asse
Un vestito che costringe genera difesa
Al contrario, un abito che sostiene:
chiarisce la postura
rende leggibile il movimento
rende sincero l’abbraccio
> Nel tango non esiste separazione tra ciò che indossi e ciò che sei in pista.
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Volontà
Stare, non mostrarsi
Nel tango la volontà non è provocazione.
È presenza.
Comunicano volontà:
linee pulite
struttura
abiti che tengono il corpo, senza gridare
scarpe che permettono di camminare davvero
> Io reggo il mio spazio. Posso incontrarti.
Nel tango milonguero, più che altrove, chi balla non ha bisogno di esibire.
Sta.
E questo basta.
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Voglia
Apertura, non esposizione
La voglia nel tango non coincide con lo scoprirsi.
Coincide con il lasciarsi avvicinare.
Un abito che comunica voglia:
non crea barriere
segue il movimento
permette il contatto
non chiede conferme continue
> Se mi inviti, io ci sono davvero.
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Piacere
Abitare il corpo
Il piacere nel tango non è erotismo esibito.
È sentirsi a casa nel proprio corpo mentre si è in due.
Chi prova piacere:
non aggiusta continuamente i vestiti
non si tocca per insicurezza
non controlla l’immagine
Il corpo è presente.
L’abbraccio è sincero.
Il dialogo è possibile.
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Perché nel tango l’abito pesa più che altrove
Nel tango:
non c’è coreografia
non c’è distanza
non c’è finzione
C’è improvvisazione, ascolto, contatto reale.
Per questo ogni incoerenza tra corpo e abito si sente, anche senza guardare.
Giuseppe Scarparo